Il risorgimento costituisce la base e come l’avvio della grande poesia pisano-recanatese, con la sua ripresa sentimentale, il tema del cuore che sa, conosce la condizione infelice dell’uomo, e tuttavia vuol vivere e sentire, e la cesura posta tra l’epoca della speranza e delle illusioni e il momento in cui affiora la nuda verità; ma non contiene grande poesia, né i suoi motivi affondano profondamente nel tessuto piú denso della poetica di questo periodo. A Silvia[1] invece rimanda subito a temi piú profondi, e anzitutto al grande motivo della rimembranza (di cui, al massimo, nel Risorgimento si era avuta una spia significativa in quell’«immemore», ma non di piú), al recupero che attraverso il ricordo la memoria poetica fa del passato e delle figure scomparse, al valore del colloquio, del “tu”, al senso degli altri, di cui c’era stata un’anticipazione importante già nel Dialogo di Plotino e di Porfirio. Rimanda al pensiero dello Zibaldone sui morti, dove il poeta esprime la cesura inevitabile della morte e insiste che davanti alla morte noi siamo commossi in quanto le persone scomparse erano state vive, e le piangiamo in quanto erano vive, come state vive, non per ciò che sarà di loro in un ipotetico aldilà[2]. È da questo atteggiamento di Leopardi che scaturisce il bisogno di recuperare attraverso il ricordo e la memoria le figure scomparse nell’unico modo possibile agli uomini senza nulla concedere alla credenza nell’aldilà. La poesia si presenta cosí come l’unico strumento di salvezza di ciò che altrimenti è caduco e spento per sempre, l’unico modo per richiamare alla vita ciò che sul piano razionale, di verità, è per sempre distrutto.
A Silvia, oltre questi motivi profondi del pensiero e della poetica leopardiana, riprende anche altri temi e anticipazioni essenziali. Dall’abbozzo del Canto della fanciulla l’intreccio e l’identificazione nel canto («voce festiva de la speranza») della fanciulla, della giovinezza e insieme della speranza. Ma quel confronto tra il canto in sé lieto e la sua risonanza dolorosa e struggente nell’animo del poeta era indagato nel presente, ancorato al presente; in A Silvia invece tutto è trasferito nel passato e rievocato attraverso il ricordo. È il motivo della rimembranza che infatti dà avvio alla grande prospettiva poetica che Leopardi apre in questo periodo, e in esso convergono motivi anche biografici (la lettera alla sorella Paolina da Pisa in cui diceva di una via singolarmente poetica che aveva chiamato Via delle rimembranze) e, in appoggio a questa disposizione sentimentale, atteggiamenti di fronte alle cose presenti e alle sensazioni immediate: la “doppia vista” del poeta che dalle sensazioni presenti è rimandato al di là di esse, ai ricordi cui le impressioni immediate alludono.
La rimembranza d’altra parte viene a essere come un modo che attraverso la doppia vista poetica indaga nel passato del poeta e gli permette di rivivere la propria storia.
È evidente il peso che in questa prospettiva vitale assumono quei pensieri dello Zibaldone in cui Leopardi, in questo periodo, affermava la preminenza, su ogni altro tipo di poesia, del genere lirico, in quanto espressione di un’esperienza interamente autentica, interamente vissuta e personale. Cosí come al criterio della doppia vista è strettamente connesso il gusto per una poesia vera e «vaga», concreta e poetica, che da cose vere, autentiche e visibili ne sviluppi gli elementi vaghi e poetici.
Sullo stesso gusto si regola qui del resto la ricerca linguistica e stilistica leopardiana che mira a un linguaggio pellegrino e insieme popolare, elegante e insieme domestico, per costruire una poesia che ritrovi la sua piú alta eleganza e la sua novità non in situazioni e in personaggi di eccezione, ma viceversa nelle cose e nelle persone piú autentiche, piú schiette, piú quotidiane e potremmo dire piú comuni. Il Leopardi in questa fase della sua poesia svolge con sicurezza la sua piú autentica vocazione e passione per la sorte di ognuno, la sua simpatia (intesa nel senso piú alto e profondo, come comunanza e medesimezza umana) per la vita di tutti, quella che potremmo chiamare la sua radice “democratica” nel senso, non tanto o solo politico, ma pre-politico, di atteggiamento fondamentale verso gli altri: donde il suo spostamento verso personaggi del popolo, come Silvia e Nerina, rispetto alla sua precedente poesia in cui si poteva avvertire piú forte la suggestione alfieriana, eroico-aristocratica che si muoveva intorno a personaggi eroici ed eccezionali (Bruto, Saffo, Virginia).
Il motivo fondamentale in questa linea della poesia leopardiana è quello del ricordo, e in particolare il motivo di A Silvia è quello che ne regola dall’interno il movimento, l’armonia, la misura e l’equilibrio perfetto. In questa poesia c’è infatti come una bipolarità, un trapasso da un polo positivo e luminoso (l’aspettazione fiduciosa della felicità e della realizzazione delle speranze) a un polo negativo, la caduta delle speranze, la morte di Silvia, la demistificazione dell’illusorietà della vita. Un trapasso che si attua in virtú della rimembranza che muove tutta la poesia. È il ricordo infatti che da una parte tende al recupero di una zona perduta, incantevole, luminosa e ingannevole insieme e dall’altra riconduce, a contrasto, al senso della caducità, rivela l’effettiva, orribile, vera e non illusoria mèta della vita umana.
Il passaggio dal primo al secondo polo si attua in forme di trapasso, che determinano non un brusco confronto tra il momento della rievocazione luminosa e quello della caducità (e quindi una ricerca di maggiore energia), ma un tono piú continuo, fuso e melodico. Per cui la stessa caduta della speranza, nella strofa quarta, porta non a una protesta e a un grido o a un’accusa verso la natura crudele, ma a un lamento e a una domanda in certo modo affettuosa. Dove non manca evidentemente il riferimento alla posizione fondamentale di protesta del poeta, ma tutto è disposto e svolto in forme che perdono i caratteri piú bruschi e piú eccessivi. E anche quando la morte della fanciulla viene enunciata nella strofa successiva, Leopardi non manca di far vibrare, intrecciata alla forma negativa («E non vedevi», «non ti molceva il core», vv. 42 e 44), al polo della caducità, l’incanto del fascino luminoso della prima gioventú. Il ricordo si muove tra questi due poli, portando in generale nella poesia un effetto idillico-elegiaco: quanto piú luminoso è il passato perduto tanto piú triste è il presente, e quanto piú tristi sono il presente e il futuro tanto piú l’animo tende a ricostituire attraverso il ricordo quel passato perduto e radioso che tuttavia viene a urtare nella barriera della caducità e della morte. Nella prima fase sembra che questa barriera possa essere superata attraverso il ricordo e la rievocazione che cerca di far rivivere totalmente quell’epoca lontana e felice, ma poi la poesia non regge a questa finzione e riporta (proprio in paragone a questo passato) al presente, al futuro, alla caducità, alla morte.
Ma se all’interno della poesia c’è questo grande motivo, in essa Leopardi riporta tanti altri elementi espressi precedentemente: dalla Sera del dí di festa, a certi aspetti della Vita solitaria in cui era presente il tema preciso del canto di una fanciulla e del suo lavoro, ai toni di colloquio affettuoso del Sogno, ai Ricordi d’infanzia e di adolescenza del ’19 (in cui compariva con forza la figura di fanciulle, addirittura quella di Teresa Fattorini, su cui Leopardi indugiava in rapporto alla sua morte precoce), al tema dell’impersuasione della morte dei giovani su cui insisteva in questi appunti e ricordi e in una delle canzoni rifiutate del ’19, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale.
D’altra parte, oltre alla pressione di questi temi interni e personali, nel motivo del ricordo che tende a recuperare il passato, a superare la barriera della morte e insieme inevitabilmente la scopre in tutto il suo squallore, va visto anche il premere di un filone importante della letteratura europea tra Settecento e Ottocento, dove il motivo della caducità individuato a volte in figure giovanili si trova in molti autori. Dalle Notti di Young agli Idilli di Gessner, dalla traduzione cesarottiana dell’Ossian a certa poesia francese tra Chénier e anche piccoli poeti come Parny, fino a Foscolo e Keats a Schiller, Hölderlin, il motivo della caducità e del contrasto tra la giovinezza e la morte è un tema che preme dal profondo nell’animo di Leopardi, che dalla letteratura europea in un modo personale e originale ne ha colti i termini essenziali sia per consonanze dirette, sia per un certo spirito generale dell’epoca, sia per la sua formazione; tanto che a questo proposito si può bene accettare quanto il De Sanctis diceva della collocazione, piú che italiana, europea del Leopardi. Una verifica in tal senso non può qui esser fatta[3], ma si può almeno ricordare un passo di un poeta in fondo mediocre come Parny, che in un epitaffio per una fanciulla morta a sedici anni, dopo averla presentata in tutta la sua ingenua bellezza, ne sigla cosí, in maniera pur ben diversa da quella leopardiana, l’improvvisa scomparsa: «Cosí si cancella il sorriso. Cosí muore senza lasciare traccia il canto di un uccello nei boschi». Che è un modo fra i tanti con cui tutto un tipo di sentimentalità e di poesia tra Settecento e Ottocento individua questo importante motivo della caducità e del contrasto tra la gioventú e il suo improvviso scomparire.
Il motivo del ricordo, dicevamo, è quello che regola sostanzialmente la poesia e ne spiega tutti i particolari. E anzitutto la sua voce fusa e unitaria, che non nasce tanto da un brusco contrasto, quanto da una forma di trapasso per cui la dolcezza impressa dalla rievocazione all’inizio passa senza contrasto anche là dove emerge piú chiaramente l’elegia, il rimpianto, il senso della caducità. Questo impianto bipolare, che si svolge in forme di trapasso, spiega anche la nitidissima costruzione in sei strofe del canto, la sua particolare simmetria che nasce perciò da queste ragioni profonde e non, come nel Risorgimento, dalla volontà di un ritmo e di una forma lucida e razionale.
Le prime due strofe delineano la rievocazione di Silvia, la terza la rievocazione del poeta in rapporto a Silvia; la quarta strofa segna il trapasso da quella rievocazione a quando Silvia muore e cade la speranza (strofe quinta e sesta). Ma tra strofa e strofa, e in particolare tra il primo polo luminoso della speranza e quello triste della caducità, c’è come uno scambio. È evidente che nella strofa sesta Silvia e speranza sono in qualche modo unificate, e non per un astratto procedimento, ma perché in realtà già nella prima parte Silvia era anche la speranza, era l’immagine viva, concreta e vaga che vestiva, attraverso il sistema della doppia vista, di forme sensibili la stessa voce della speranza; sicché poi quando la speranza comparirà piú direttamente nell’ultima strofa porterà con sé riflessi sensibili della figura femminile di Silvia, il gesto finale della mano. È tanto forte questa fusione tra Silvia e la speranza che commentatori anche fini, come Momigliano, hanno pensato che negli ultimi versi si trattasse non della speranza ma di Silvia: che è un’opinione certamente non accettabile perché il «Tu, misera, cadesti» (v. 61) si riferisce senza dubbio alla speranza e non a Silvia. Ma tanto Silvia era già in qualche modo l’immagine di se stessa e della speranza che, quando appare, la speranza riporta da questa iniziale fusione come una continuità delle tracce sensibili di Silvia. Fusione che, d’altra parte, fa anche cadere l’accusa di allegorismo che alcuni scolari crociani hanno mosso alla parte finale del canto: in effetti non si tratta di una giustapposizione esterna, di un trapasso raziocinante, sicché la speranza prende l’aspetto di fanciulla o di Silvia, perché tale pregnanza di significato, e tale scambio e mescolanza di connotati era in atto fin dall’inizio.
La poesia da questi motivi organici centrali ritrae e la sua particolare costruzione e la sua novità metrica. Naturalmente il Leopardi, nella sua eccezionale esperienza, aveva teso continuamente a rinnovare la metrica tradizionale anche là dove ne aveva accettato dei principi fondamentali, tanto che è stato detto che il canto leopardiano attua il dissolvimento dei generi lirici in senso metrico[4]; ma con A Silvia questa volontà di rinnovamento va ancora avanti, proprio nella ricerca di una piena aderenza al ritmo interno richiesto dalla misura del trapasso tra momento luminoso e momento di mestizia.
Il Leopardi cioè ricerca un discorso ritmico articolato sul respiro interno della poesia: di qui una costruzione piú libera, autoregolantesi, che non segue la precisa divisione tra verso e verso ma la rompe con ideali versi piú lunghi e in cui settenario ed endecasillabo si uniscono. Si pensi alla rottura della scansione tra endecasillabo e settenario, all’inizio («Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale») dove sembra quasi di leggere un unico verso; oppure alla ricerca di un gioco di rime interne («allor che all’opre femminili intenta / sedevi, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi», vv. 10-12) che permette al Leopardi di costruire versi piú lunghi, meno soggetti a quel tipo di metrica tanto piú rigida, brillante, che egli aveva poco precedentemente seguito in Il risorgimento.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale, [...]. (vv. 1-2)
Qui la poesia ha il suo appoggio fondamentale: il metodo della ricordanza viene a chiarire le sue prospettive profonde che vanno assai al di là di una semplice rievocazione del passato o, peggio, di una degustazione di esso. Il ricordo vuole salvare e far rivivere in una propria e particolare zona poetica ciò che non può evidentemente rivivere nella vita reale. Il ricordo è l’unico strumento per recuperare alla vita ciò che è morto e spento per sempre, per riattrarre Silvia, che non ha avuto altra vita da quella mortale, nell’unica dimensione possibile in cui essa può rivivere insieme al poeta. Questo metodo della ricordanza ha perciò in Leopardi un significato profondo, lontanissimo da ogni forma di semplice nostalgia in senso vago e di pura rievocazione. A questa parola tematica e fondamentale, «rimembri», Leopardi non arrivò immediatamente, ma con una correzione, la correzione piú importante che egli fece al di là del testo primitivo, quello consolidatosi tra il 19 e il 20 aprile 1828, e comunque anteriormente alla prima edizione di A Silvia; una correzione che risale agli ultimissimi anni, dopo l’edizione Starita dei Canti, del ’35. Dopo aver usato nell’edizione fiorentina del ’31 «sovvienti ancora», e nella edizione napoletana del ’35 «rammenti ancora», Leopardi ritorna ancora su questo verso fino a trovare l’espressione piú per lui soddisfacente, «rimembri ancora»[5]. Nella cui scelta finale dovremo vedere piú che la volontà di non ripetere, come si è pensato[6], un verbo (sovvenire) che ritorna al centro della strofa quarta («Quando sovviemmi di cotanta speme»), il desiderio da parte del Leopardi di fissare fin dall’inizio la parola chiave piú pertinente alla poetica della «rimembranza» su cui egli aveva insistito in questo periodo (parola chiave migliore di «sovvienti» che poteva sembrare piú legata a cosa particolare, e di «rammenti» che rappresentava una via intermedia).
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, [...] (vv. 3-4)
Anche in questo caso inizialmente Leopardi aveva tentato altre forme: «Ne la fronte e nel sen tuo verginale», «E ne gli sguardi incerti», «E ne gli occhi tuoi molli e fuggitivi», quasi attratto in un primo momento da un tipo di immagini che potremmo dire piú neoclassiche («Ne la fronte e nel sen tuo verginale»); solo successivamente invece il poeta trasferisce tutta l’intensità della figura negli occhi (inizialmente «sguardi incerti») che diventano «occhi tuoi ridenti e fuggitivi». È una scelta definitiva in cui il Leopardi realizzava la sua poetica del vero e del vago, con un’immagine sensibile e suggestiva come quella degli occhi che viene poi ad acquistare la sua mobilità interna e un carattere in certo modo piú acuto, piú vago e piú poetico, nel senso leopardiano, con questa coppia di aggettivi: «ridenti» (a denotare la letizia della giovane, e la letizia della speranza che in lei vive), «fuggitivi», (che comporta piú che una visione malinconica, come qualche critico ha detto, questa maggiore mobilità, l’intima verecondia della fanciulla che non fissa gli altri col suo sguardo sorridente).
Anche l’altro accordo tematico centrale di questa poesia, «lieta e pensosa» (v. 5), fu raggiunto dal Leopardi solo dopo altre prove. Egli infatti in un primo tempo aveva espresso direttamente l’intima castità che sentiva in tutta questa figura attraverso la coppia «lieta e pudica», cosí come piú tardi, nel pensiero dello Zibaldone sull’incanto di una fanciulla[7], insisteva su questo carattere di ingenuità e di innocenza, che poteva anche essere un suggerimento del finale della pariniana A Silvia. Successivamente invece scelse il termine meno diretto e tanto piú poetico perché esprime perfettamente questo incontro di letizia, di confidenza nell’avvenire, nella fanciulla, e insieme la sua pensosità, una lieve ombra che si irraggia e fa alone sull’immagine della letizia: cosí che il senso di ingenuità, di verecondia e di pudicizia vibra da tutta la figura senza essere enunciato direttamente.
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
cosí menare il giorno. (vv. 7-14)
La seconda strofa, dopo che nella prima la memoria poetica ha recuperato l’immagine luminosa, pensosa e lieta della fanciulla che ascende e rimarrà sulla soglia della vita (per lei anche soglia della morte), consolida la figura di Silvia (che secondo il criterio della doppia vista implica anche speranza) in un’immagine come distaccata di intimo e misurato fervore senza movimento esterno. Quest’effetto di quiete composta è raggiunto soprattutto dall’uso degli imperfetti che qui si addensano anche in rime interne: «Sedevi», «avevi», «solevi»; essi indicano la durata nel passato, la consuetudine di care abitudini, in contrasto alla parte terminale dove cedono ai passati remoti, al tempo della cesura, del “mai piú”, quando la vicenda sarà affettivamente e radicalmente conclusa.
I versi finali della strofa completano la delineazione di Silvia: la sua immagine di un avvenire affascinante, «vago» (termine che rispetto al precedente «dolce», meglio pertiene sia all’immaginare della fanciulla sia a uno dei termini fondamentali della poetica del “vero” e del “vago” in Leopardi) e il fascino del paesaggio. La rievocazione di Silvia corre tra il maggio e l’autunno: ma in questa poesia il paesaggio pur essenziale non ha quel carattere di emblematica schematicità e, alla fine, di fondale da scena melodrammatica che assumeva nel Risorgimento («La piaggia, il bosco, il monte»). Qui basta l’aggettivo «odoroso», un accordo che ritornerà nelle Ricordanze, nell’episodio di Nerina, a indicare in tino dei punti piú alti e mirabili raggiunti da Leopardi tutto il fascino della primavera («Ad altri / il passar per la terra oggi è sortito, / e l’abitar questi odorati colli», vv. 149-151), per suggerire intorno a Silvia l’incanto del paesaggio primaverile.
Nella terza strofa, dove è presentata la sua situazione corrispondente alla delineazione di Silvia, il Leopardi cerca implicitamente di esprimere l’intima e profonda simpatia che unisce la sorte della semplice fanciulla del popolo e quella sua, del giovane grande poeta: ambedue provano gli stessi sentimenti, vivono la stessa iniziale fiducia nella vita, anche se Leopardi può mettere in evidenza la sua maggiore sensibilità, la sua personalità piú grande quando la poesia passa all’impeto quasi misuratamente estatico della strofa successiva:
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno. (vv. 15-27)
I commentatori, per chiarire l’espressione del secondo verso, si sono in genere molto affaticati a distinguere gli studi letterari e poetici del Leopardi, che sarebbero espressi dall’aggettivo «leggiadri», e quelli eruditi e filosofici, «sudate carte». In realtà nell’autografo si trova che tali studi sono anche indicati come «miei dolci» oppure «gli studi miei lunghi», e le «carte», prima che «sudate», sono chiamate «dilette». Quella identificazione non è dunque accettabile: ma si dovrà piuttosto vedervi riflessa la posizione leopardiana che indicava nella poesia anche il frutto di un lungo lavoro, di un mestiere e quindi anche di una fatica. D’altra parte, l’aggettivo «sudate», apparso ad alcuni critici e in particolare al Flora come troppo fisico, come qualcosa che disturba la poesia, va ripensato sia nel suo uso letterario sia in particolare in relazione ad altri contesti leopardiani («per qual patria spanderò i sudori i dolori il sangue mio?» dice Leopardi in un abbozzo di poesia giovanile)[8], dove esso non rimanda ad alcuna caratteristica fisica, ma denota soltanto una fatica, un impegno spirituale per esprimere qualcosa di profondo.
Il richiamo alle varianti giova anche a intendere meglio il senso dell’espressione «ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela». Il Leopardi inizialmente aveva scritto «percotea la faticosa tela», quasi a indicare attraverso l’allitterazione una ricerca realistico-mimetica, il suono, lo strepito del telaio, di cui aveva parlato nel finale della lettera sul sepolcro del Tasso; la scelta poi fatta, alla ricerca di un accordo di suono e di movimento che passa dalla mano alla tela, è invece coerente alla direzione di poetica del vero e del vago, lontanissima da ogni gusto naturalistico e mimetico.
Cosí come sobrio, essenziale e senza nulla di “pittoresco” è il paesaggio dei versi successivi, dove la stessa luce non è vista tanto nel suo espandersi diretto quanto come intrisa nelle cose, «dorate».
Gli ultimi due versi portano avanti il movimento espansivo di intima letizia, espresso con sublime semplicità con le parole meno enfatiche: «non dice», che viene consolidato nella strofa quarta, dove la situazione e i sentimenti del poeta e della fanciulla vengono unificati. Ed è a questo punto di maggiore espansione di letizia e di fiducia che si produce il trapasso al polo negativo della poesia:
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi? (vv. 28-39)
Quando il poeta ricorda quella speranza cosí grande («cotanta speme», e si noti come la parola che raccoglie la situazione di Silvia e del poeta sia un semplice aggettivo), gli nasce il paragone tra essa e la situazione presente. A questa funzione di trapasso assolve appunto la memoria, la rimembranza, elemento costitutivo di tutta la poesia, che viene qui passando dal suo ufficio di volontà di recupero del passato e persino della persona morta, scomparsa per sempre, a quello di rivelazione della verità, della sorte effettiva di Silvia, del poeta e di tutti gli uomini. Che però, anche in questo caso, coerentemente al tono di tutta la poesia, non è indicata in modo esplicito (inizialmente Leopardi aveva detto «un cordoglio mi preme / acerbo e sconsolato», e poi un «dolor»), ma con una parola piú vaga, «affetto», di per sé né positiva né negativa, poi siglata negativamente dagli aggettivi.
A questo trapasso è legata la domanda alla natura pronunciata non come una protesta, ma come un lamento replicato, affettuoso e colloquiale. Dove converge anche quanto Leopardi, scrivendo in questo periodo nello Zibaldone, aveva detto del suo sistema filosofico «grido o piuttosto lamento»: definendo cosí la sua prospettiva in termini meno espliciti e aperti di quanto essa fosse stata in lui altre volte e tornerà poi a essere nella sua ultima poetica.
Avvenuto il trapasso, nella strofa quinta si presenta ormai la situazione di Silvia e della morte, e poi la situazione del poeta e della morte della speranza. Dove va avvertito anche il ritorno, dopo il movimento piú mosso della strofa precedente, ricca di esclamativi e di interrogativi, al passo costante di questa poesia sempre estremamente misurato, meno impetuoso che in altre poesie leopardiane, e pure cosí profondo:
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore. (vv. 40-48)
Sui primi due versi il Leopardi è ritornato piú volte. Per il paesaggio del primo verso il Leopardi aveva in un primo momento pensato anche a una certa corrispondenza con dati reali (la fanciulla, Teresa Fattorini, morí appunto nell’autunno del ’18) e insieme a un tempo ideale, al momento del decadere, dello sfiorire della natura in rapporto antitetico coll’immagine della primavera («maggio odoroso»), per cui scrisse: «Tu pria che i poggi scolorisse autunno». Ma poi, come colpito dal carattere forse eccessivamente visivo dello “scolorire” dei poggi, tentò una variante cronologica, senza dubbio un po’ banale: «Tu dopo il trapassar di poche lune». Infine, tornando alla volontà di un paesaggio, superò quello che nel primo tentativo poteva esserci di piú visivo e colorito per esprimere un senso di squallore improvviso, che comporta nella tradizione letteraria la parola «verno», anche per intimamente raccordare la morte della fanciulla con la morte, anche se provvisoria, della natura.
Per il secondo verso, inizialmente Leopardi aveva scritto: «Da chiuso morbo consumata e vinta», dove però «chiuso» era una variante successiva a un precedente «occulto»: la consunzione della tisi (che nell’Ottocento si chiamava “mal sottile”), di un male occulto che consumava, sembra perciò che fosse il carattere su cui Leopardi voleva allora insistere nel presentare la morte di Silvia. Nel 1835 invece egli volle, oltre ad attrarre in un accordo metaforico il «consumata» con il «vinta», anche immettere qualcosa di piú lievemente drammatico nella sorte di Silvia, quasi riflettendovi la maggiore energia con cui allora costruiva La ginestra, non solo la pertinacia ostile del morbo, ma anche della natura e del fato.
I versi successivi della strofa in cui il poeta sta approdando al polo negativo sono tra i piú alti: il ricordo che attraverso il paragone tra la felicità iniziale e la caduta successiva delle speranze e la morte ha portato a demistificare gli inganni della natura, l’illusorietà della felicità che essa offre, e tuttavia fa vibrare nella forma privativa, negativa («non vedevi», «Non ti molceva»), tutto il fascino luminoso della vita pur non vissuta e non concessa realmente agli uomini dalla natura. Leopardi cioè indica la morte di Silvia con un intreccio di negazioni e di affermazioni (ciò di cui la fanciulla viene privata dalla morte: il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza), che corrisponde anche a quel gusto dello sfumato trapasso cosí tipico di questo grande canto.
In queste immagini dovremo vedere anche il rifluire di ricordi precedenti (il «molceva» e le «negre chiome» si trovano già Nelle nozze della sorella Paolina riferiti a Virginia, pur diversa nella sua intonazione patetica ed eroica da Silvia, e alle donne spartane che spandevano le loro chiome sui corpi esanimi e nudi dei mariti) e il risultato di un lavoro stilistico da parte del poeta. Il Leopardi inizialmente aveva scritto di Silvia: «sguardi verecondi e schivi»; successivamente tende, con una delle intuizioni piú alte di questo canto, a graduare Silvia in una prospettiva diversa da quella delle prime strofe. Prospetta cioè la fanciulla in una maggiore maturità e pienezza, pur non vissuta («innamorati» rispetto a «verecondi» e a «ridenti e fuggitivi»), dove la stessa preferenza di «sguardi» rispetto a «occhi» della prima strofa vuole indicare come un qualcosa di piú attivo, di sguardi che cercano altri sguardi. Cosí come «schivi» riproduce, ma con maggior consapevolezza e in forme ormai prive di baldanza, quel fondo di pudore che Leopardi ha voluto dare a tutta la rievocazione di Silvia.
D’altra parte in questa espressione («sguardi innamorati») va anche visto l’incontro di forme di linguaggio letterario e aulico e insieme popolare cui Leopardi in questa sua poetica ha mirato. Infatti per documentare il senso attivo del participio, in questo senso usato nella poesia, egli aveva riportato nello Zibaldone uno stornello, che si cantava a Recanati: «Io benedico chi t’ha fatto l’occhi / che te l’ha fatti tanto ’nnamorati» [29], e in seguito citava un sonetto e una canzone del Petrarca[9].
Questa associazione di linguaggio rimanda del resto al tentativo leopardiano di unire le cose piú comuni, piú schiette e familiari con le piú rare e pellegrine, che ritorna anche nel verbo di poco seguente «Ragionavan». Infatti, in una lettera del 30 maggio del ’17 al Giordani, Leopardi portava questa voce verbale ad esempio di quella espressione del toscano letterario che egli sentiva anche sulla bocca ai contadini di Recanati[10], e in poesia lo veniva usando nel Primo amore (v. 83). È attraverso questo termine aulico e popolare che il Leopardi sigla l’incontro mancato di Silvia con le compagne, questo abbozzo di scena popolare e familiare di cui Silvia è privata e che nello stesso tempo viene rilevata in tutto il suo fascino e splendore.
L’ultima strofa trae alla sua conclusione il diagramma che partendo dal recupero di un passato radioso passa alla rivelazione della sorte crudele di Silvia e di tutti gli uomini:
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
all’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano. (vv. 49-63)
Leopardi, con un patetico esclamativo, in forma di rimpianto (dove torna, anche se a un livello poetico diverso, l’eco di certa poesia dal Leopardi amata, tra pastorale e madrigalesca, soprattutto risentita negli sviluppi che ne aveva dato il Metastasio nei suoi alti, gentili, patetici recitativi e per esempio nell’Olimpiade dove si trova «mia perduta speranza» – At. II, sc. 9, v. 88 – un’espressione assai simile a questa), si rivolge alla speranza sulla quale, secondo un trapasso tutt’altro che raziocinante e allegorico, attrae forme quasi di fanciulla, di Silvia e delle sue compagne (occorre pensare infatti che l’espressione «Cara compagna dell’età mia nova» sia stata suggerita dalle «compagne» di Silvia evocate nella strofa precedente in un ambiente realistico e vago; e del resto torna anche il verbo “ragionare” usato già in quella scena familiare e domestica).
La sobria intensità che presiede a questa poesia si ritrova anche negli ultimi versi dove il poeta con il semplice uso dei dimostrativi («Questo è quel mondo?») ottiene l’alto risultato poetico di indicare l’assoluta sproporzione tra il mondo sognato e sperato e la rivelazione di ciò che esso è effettivamente.
Conforme alla poetica del vago e del vero è anche il gesto familiare della mano con cui la speranza indica la mèta effettiva degli uomini, nati per la morte, perché pertinente a una figura reale e insieme piena di allusioni: come proveniente dai tempi lontani del ricordo (lo dice quel «di lontano»), su su fino al presente e al futuro, fino alla morte.
Anche le varianti tentate dal Leopardi per il penultimo verso procedono da forme piú esplicite a forme allusive e piú suggestive. La «tomba ignuda», ignuda cioè di gloria e di lacrime e insieme assolutamente, supremamente squallida, riassorbe tutte le varianti precedenti («Un sepolcro deserto»; «La fredda scura morte ed una tomba ignuda»; «A me la tomba inonorata e nuda») con un’espressione profonda e lontana da vie piú neoclassiche, cui forse in un primo tempo pensava Leopardi con quell’insistenza su «avello», «sepolcro», «inonorato», e anche dal mito foscoliano delle tombe: qui per Leopardi nulla, neppure l’onore, la gloria, il pianto, può sopperire alla suprema sventura costituita dalla morte, dalla scomparsa totale dell’individuo.
1 Tutte le opere, I, p. 26.
2 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 1144-1145.
3 Per un quadro piú ampio e documentato cfr. W. Binni, «Leopardi e la poesia del secondo Settecento» cit.
4 È un aspetto lumeggiato dal volume di K. Maurer, Giacomo Leopardis «Canti» und die Auflösung der lyrischen Genera, Frankfurt am Main, Klostermann, 1957.
5 Per l’analisi delle varianti di A Silvia cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 525-530.
6 Cfr. G. De Robertis, «Sull’autografo del Canto A Silvia», «Letteratura», , n. 6, 1946, pp. 1-9; G. Contini, «Implicazioni leopardiane», «Letteratura», n. 2, 1947, pp. 102-109; G. De Robertis, «Biglietto per Gianfranco Contini», «Letteratura», n. 3, 1947, pp. 117-118. Gli articoli di De Robertis sono compresi in Primi studi manzoniani e altre cose, Firenze, Le Monnier, 1949, pp. 150-168 e 169-172; l’articolo di Contini si legge ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 41-52.
7 Cfr. Tutte le opere, II, p. 1158.
8 Tutte le opere, I, p. 331.
9 Tutte le opere, II, pp. 20 e 1082.
10 Cfr. Tutte le opere, I, p. 1032.